Rasegù
grossa sega

arnes



Col raśegù se taiavagió li às da 'na bóra

Con la grossa sega si segavano fuori le assi da un tronco 

Vè la cünti iscé coma i ma l'à cüntada



La strada non era lunga ma a fare il giro del paese impiegavo tanto tempo perché mi fermavo a “cüntàla 'n póo” (racccontarla un po’) con i conoscenti. 

In uno spiazzo c’erano degli amici “rasighìi” (segatori) che avevano montato il palco per segare "deli bóri" (dei tronchi) per fare delle assi e cantavano già al mattino presto, o almeno sembrava.   Mi fermai ad osservare.

Erano Dolfo e Gioanìi che avevano già sistemato un tronco e avevano iniziato a "rasegàgió" (a segare). 

Uno sul palco dava ritmo dicendo: “Tira... Tira ...” e intanto da sotto l’altro tirava.  

Avevano un bel po’ di spettatori e ogni tanto si fermavano a "a ciapàa fiàat" (a prender fiato). 

Prima beveva quello sotto quindi passava il fiasco a Dolfo che era sopra raccomandandogli: "Bìif pòoch" (bevi poco) e questo: " 'l me par de chèl lègéer !" (mi sembra di quello leggero); voleva far capire al proprietario dei tronchi che era il caso di tirare fuori il vino buono! 

Ripresero il lavoro sotto lo sguardo divertito del pubblico, ma questa volta trovarono un "gróp" (nodo) e faticavano a far scorrere la lama. 

Dolfo intonò “Tira fort ... Tira fort...” esprimendo lo sforzo che facevano. 

Rincuorati dal vedere che la padrona portava via la prima "taola" (asse) e "ol padrù" (il padrone) andava in cantina a prendere di quello buono, ripresero con lena e suscitarono applausi. 

Non si fermarono più fino in fondo al tronco. 

Salutai e mi avviai per la mia strada accompagnato da due ragazzine che con un bagiol” (bastone da spalla per secchi) a testa, andavano a prendere l’acqua alla “pèsola” (canaletta) della sorgente. 

Presi i "sedei" (secchi) alla più piccola e le seguii. 

In lontananza apparve un lavatoio e un bue all’ombra, del grande rovere, che agitava la coda per allontanare le mosche. 

Quattro donne in ginocchio insaponavano e sbattevano indumenti e "lensöi" (lenzuola) prima arrotolati, con energici gesti. 

Una, vedendomi, si aggiustò "ol panèt" (il fazzoletto) in testa e prese a cantare seguita dalle altre. 

Con le due bambine salimmo appena sopra dove sgorga l’acqua e le aiutai a riempire i secchi e a metterseli in spalla con il "bagiol".                                                      

Dalla strada del bosco spuntò Milio “l'éra ol magnàa” (lo stagnino). “L'èra tüt téec' ” (era tutto nero affumicato). 

Il cappello pareva nuovo e pulito e ci raccontò che era stato la paga ” dè 'na scióora” (di una signora).

Siccome gli feci i complimenti per il cappello, se lo tolse e dalla fodera estrasse un foglietto con una bella grafia che recitava:

<<A Milio "èl magnàa 'ncambi" (lo stagnino in cambio) della riparazione "sü 'ndèl léc' "  (sul letto); con riconoscenza Maestra Giuseppina. >>

Era orgoglioso del bel cappello a “lobbia” (cappello semirigido da uomo con una infossatura sulla cupola) che apparteneva al padre della maestra e lo mostrò alle donne al lavatoio. 

Queste "maliziósi" (maliziose) iniziarono a far domande: Era bella questa maestra ? 

Milio stette al gioco e raccontò: <Non ha mai insegnato, è proprio una bella signora, i suoi erano Conti ma lei non volle mai che la chiamassero Contessina, è rimasta sola e senza una "palanca" (senza soldi) perché donò terre ed averi alle famiglie del circondario. 

Queste riconoscenti la mantengono portandogli i frutti della terra. 

La conobbi quando tornai dalla guerra, e  ogni tanto mi chiama per piccole riparazioni.> 

Milio aveva un viso che sembrava scolpito nel legno ed essendo completamente senza denti, quasi il mento gli toccava il naso. 

Era un "Ciacerèta” (Chiacchierone) e soprattutto con le donne parlava e scherzava volentieri. 

I suoi servigi consistevano nel riparare “padéli” (padelle), "paröi" (paioli) e "parulìi" (pentolini). 

Ma anche coltelli e accette, sia affilandoli con la sua acqua magica oppure rimettendo i "rèbatìi" (rivetti)  ai manici e impugnature. 

La sua acqua magica per affilare falci e arnesi da taglio era un segreto che svelava, un po’ a tutti, solo dopo aver bevuto almeno due bicchieri di vino buono da diventare un po' "ciòch" (alticcio). 

Diceva di mettere uno scorpione nell’acqua del “còdèer” (portacote) prima di usare la "preda" (cote) per affilare la "fòlsc" (falce). 

Rimane il fatto che chi provò dovette constatare che “ol fìl de li lami 'l dürava püsé”  (Il filo della falce o altro durava più a lungo). 

Lo conoscevano con il soprannome  “chèl de l'acqua” (quello dell'acqua) sia perché chiedeva acqua per raffreddare le padelle e paioli stagnati sia perché lo scherzavano chiedendogli se preferiva bere acqua o vino!  "Ol magnàa” elargiva volentieri carezze a bambini e "ali femni" (alle donne)!